Dopo aver dato il via al nostro speciale che confronta il baseball con gli altri sport di nicchia italiani, siamo arrivati alla seconda puntata dove analizziamo la situazione legata al rugby. In merito a questo, abbiamo deciso di intervistare il giornalista Duccio Fumero, ideatore ed autore di un seguitissimo blog sulla palla ovale, Rugby 1823.

Alla vigilia delle ultime elezioni il presidente uscente Dondi ha dichiarato al Corriere della Sera "Otto miliardi di lire era il bilancio nel 1996, 40 milioni di euro quello di oggi. Avevamo 26mila tesserati, ora siamo a 96mila (…). Ho il privilegio di guardare indietro e sorprendermi per quello che siamo riusciti a fare. (…)Avevamo dei sogni, li abbiamo realizzati in larga parte. Noi il 5 Nazioni lo vedevamo in tv e sembrava un mondo lontanissimo. Oggi quando gioca l’Italia all’Olimpico arrivano fino a 80 mila spettatori(…)". Condividi queste affermazioni ?
Nì. Sicuramente il rugby in Italia è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi 15 anni e sicuramente il lavoro fatto dalla Fir, e da Dondi, per portarci nel 6 Nazioni e far crescere questo sport è stato importante e notevole. Dall'altra parte, da un lato la cima dell'iceberg ha corso, con la nazionale che fa tendenza, ma il resto del movimento, proprio come un iceberg, resta sotto il livello di galleggiamento.

La FIR è stata la prima federazione ha far emigrare due squadre in un campionato professionistico sovranazionale (la Celtic League). Come sta andando questa esperienza ? Pensi che possa avere futuro o è destinata a concludersi?
L'esperienza celtica era fondamentale e ha portato in parte i suoi frutti. I giocatori italiani non devono più emigrare per giocare ad alto livello e tanti giovani esordiscono subito nel rugby “vero”, quello professionistico. Purtroppo, però, problemi interni e una crisi del rugby europeo rischiano di chiudere presto questa esperienza. Io spero si vada avanti, ma non si può dire nulla a oggi.

Tra gli anni 80 e 90 nel campionato italiano hanno giocato campioni del calibro di Botha, Kirwan, Lynagh e Campese, veri top player, come mai all'epoca è stato possibile portare tali giocatori qui, e come mai il campionato italiano non ha fatto il salto di qualità ?
Fino a metà anni '90 il rugby era uno sport dilettantistico. Quindi niente stipendi (ufficialmente) né contratti. Così i club italiani hanno potuto portare nel nostro campionato i più forti giocatori al
mondo, con offerte lavorative alternative. Con l'avvento del professionismo, però, c'è stata una corsa al rialzo al valore dei giocatori (un po' come nel calcio negli ultimi anni) e ora i grandi campioni costano centinaia di migliaia di euro all'anno. Soldi che girano in Francia e in Inghilterra, di sicuro non qui. Senza visibilità mediatica non ci sono sponsor e senza sponsor non ci sono i campioni. E senza campioni non c'è visibilità mediatica...

Tra il 2000 ed il 2009 il campionato si è dato una struttura semiprofessionistica e le società si sono organizzate in una lega, che dall'esterno era vista come simbolo di efficienza e rilancio, come mai è fallita nonostante il buon inizio?
Bella domanda. Da un lato la Fir non ha aiutato la lega a crescere, dall'altra – come sempre – hanno prevalso i campanilismi e gli interessi personalistici. A ciò si aggiunga che alla struttura semiprofessionistica, come dicevo prima, non si è creato un campionato/movimento che raggiungesse le piazze più importanti e con una visibilità minima, che non ha portato introiti per mantenere quel semiprofessionismo che, di fatto, era solo di facciata.

Il grande pubblico va a vedere la nazionale ma non il campionato italiano (e poco anche la Celtic League), come mai secondo te?
Per i discorsi fatti sopra. Al di là della questione modaiola dell'Italrugby, dei suoi personaggi mediatici (Castrogiovanni, i Bergamasco, Parisse), la visibilità e la diffusione del rugby d'alto livello in Italia è bassa. Il campionato è di basso livello e racchiuso in due/tre enclave (Veneto, Roma e la provincia lombarda), mentre per quel che riguarda la Celtic League sono stati commessi tantissimi errori di marketing e comunicazione che lo hanno tenuto nell'ombra.

Nel rugby si è fatto ampio uso in nazionale e nei club di giocatori "naturalizzati" o con doppio passaporto, cresciuti sportivamente in un altro paese, come viene giudicato questo aspetto dal mondo della palla ovale? C'è polemica sull'utilizzo di questi giocatori?
Le polemiche si ripropongono quasi a ogni convocazione, anche se vanno fatti dei distinguo. Ci sono giocatori nati e cresciuti all'estero, ma che sono italiani (Parisse per esempio) al 100%.
Altri hanno origini più o meno lontane, ma restano – almeno in parte – italiani e, soprattutto, quasi tutti sono arrivati da noi giovani o giovanissimi.
Poi ci sono gli stranieri naturalizzati. Su questi le polemiche sono maggiori, perché vestono la maglia italiana senza esserlo. Ma, anche qui come ovunque, le polemiche esplodono quando si perde, ma quando questi “stranieri” ci fanno vincere la maggior parte della gente dimentica da dove arrivano.

Pensi che il 6 Nazioni sia un evento ricreabile in altri sport od un caso unico nel suo genere?
Anche se il 6 Nazioni, per come è oggi, ha solo 14 anni di vita, bisogna ricordare che in verità esiste dal 1883. Ricreare, ex novo, qualcosa di simile a un torneo che ha 130 anni di storia è pressochè impossibile.
Inoltre, nel rugby il professionismo come detto è arrivato tardi e i mondiali si disputano solo dal 1987. Quindi il Sei Nazioni ha avuto per oltre un secolo l'esclusiva del “grande evento” nel rugby, mentre in altri sport – penso al calcio, ma anche al baseball – ci sono mondiali o campionati talmente importanti che nessun “Sei Nazioni” riuscirebbe ad avere il fascino che ha nel rugby.

Domanda da mille punti ... perché gli italiani si appassionano solo al calcio e gli altri sport restano con le briciole?
Da dove partiamo? A parte gli scherzi, i motivi sono sicuramente tantissimi e non si possono citare tutti. Di sicuro tra i motivi fondamentali è che il calcio ha una diffusione totale sul territorio, mentre altri sport hanno fatto breccia solo in determinate città o regioni. Poi c'è la pigrizia italica nel voler imparare e, dunque, conoscere altre realtà diverse da quelle che si conoscono bene. Per appassionarti a uno sport devi capirlo, ma spesso è faticoso. Mentre il calcio lo “conosciamo” fin dalla culla. Infine, il problema è mediatico. Finché televisioni, giornali e organi d'informazione in generale ti offrono un prodotto, tu acquisti quel prodotto. E lo show business e l'informazione italiana ci dà il calcio, lasciando agli altri sport le briciole. Nei palinsesti e nei giornali. Sappiamo tutto sull'ultima scappatella del campione di calcio, ma poi su un giornale fatichiamo a trovare i risultati del massimo campionato italiano di rugby. Come fai ad appassionarti, così?

di Davide Bertoncini


Nella foto, un momento della sfida del 2012 tra i London Irish e lo Stade Montois-de-Marsan del 2012 (Warren Little/Getty Images Europe da Zimbio.com).