NEL BOX DI BATTUTA SI PRESENTA...MICHAEL JORDAN!
È il 20 giugno del 1993: la bomba a quattro secondi dalla sirena di John Paxson ed i 33 punti di Michael Jordan hanno appena regalato ai Chicago Bulls il three-peat, il terzo titolo consecutivo della National Basketball Association, sconfiggendo in Arizona i Phoenix Suns dopo un match tiratissimo, deciso a fil di sirena.
Attenzione, l’NBA non è quella di oggi con trenta squadre ed il talento estremamente diluito tra le franchigie: per arrivare alla serie finale i Bulls hanno dovuto superare ai playoff gli ostacoli Kevin Willis, Mookie Blaylock, Dom Wilkins, Stacey Augmon, Jon Koncak (Atlanta Hawks), Mark Price, Craig Ehlo, Brad Daugherty, Mike Sanders, Gerald Wilkins, Hot Rod Williams (Cleveland Cavaliers), Charles Oakley, Pat Ewing, John Starks, Doc Rivers, Anthony Mason (New York Knicks) per poi trovarsi di fronte ai Suns dell’amico-nemico Charles Barkley, di Dan Majerle e Danny Ainge, di Kevin Johnson e Mark West.
Jordan arriva a quella finale con nel taschino una lista infinita di riconoscimenti personali già ottenuti in carriera ed ha solamente ventinove anni; tra i cinque “titolari” di quella magica serata all’America West Arena solo il centro Bill Cartwright è più vecchio di lui, ma in panchina c’è già chi scalpita per raccoglierne l’eredità.
Prima di quei Bulls solo i Minneapolis Lakers erano riusciti in un three-peat, quarant’anni prima, ed i Celtics avevano centrato addirittura un eight-peat, marchiando a fuoco una decade e spiccioli di basket americano. Air è l’alfiere di una squadra non solo vincente, bensì dominante; l’NBA è sua, lo sarà per molti anni a venire e l’impressione è che il record dei Celtics sia seriamente minacciato dall’ascesa dei tori dell’Illinois.
Ma la storia sterza bruscamente. Due mesi dopo, il 13 agosto, viene identificato il cadavere di un uomo di colore trovato morto dieci giorni prima in una piccola palude di Bennettsville, vicino al confine tra North e South Carolina, col volto riverso sull’acqua stagnante. Gli assassini sono due ed uno di loro al momento dell’arresto sfoggia una maglietta di Jordan: la vittima è il padre, James Raymond Jordan. Michael è sconvolto, il legame con James era strettissimo: era con lui mentre festeggiava il suo primo anello NBA ed ancora prima era stato lui, grande appassionato di sport, a spronarlo a continuare nonostante fosse considerato inadeguato per la pallacanestro alla Emsley A. Laney High School.
L’inconfondibile linguaccia durante lo sforzo del gesto atletico, divenuta un suo tratto distintivo, aveva volontariamente deciso di adottarla per omaggiare lo stimato padre che quando si concentrava aveva quella curiosa abitudine. Due ragazzini, per rubare la macchina dove si era riposato James Jordan di ritorno da un funerale, sparandogli senza alcun motivo - l’intenzione era di immobilizzarlo con una corda - avevano strappato da Michael una parte importante di sé.
La reazione di Jordan arriva altri due mesi dopo: il 6 ottobre, a meno di un mese dalla partita d’esordio della nuova stagione dei Bulls, annuncia in una conferenza stampa il suo ritiro dall’attività agonistica. “The desire isn’t there”, la motivazione; ha già dimostrato tutto, ha già vinto tutto, la pancia è piena e le motivazioni latitano.
L’omicidio del padre ha dato lo slancio decisivo ad una decisione consapevole e maturata nel tempo. Già nell’estate del 1992 Jordan aveva meditato sulla possibilità di lasciare il basket, schiacciato dal peso della sua fama ormai Mondiale e dalla fatica di una stagione NBA conclusa con l’Olimpiade del Dream Team.
Non mancano naturalmente teorie più prosaiche riguardo la decisione-shock: la notte precedente ad una partita della serie di playoff del 1993 contro i Knicks Jordan era stato visto scommettere ad Atlantic City, mentre nel libro dello stesso anno "Michael & Me: Our Gambling Addiction... My Cry for Help!" l’uomo d’affari di San Diego Richard Esquinas scrive di aver vinto due anni prima più di un milione di dollari scommettendo con Jordan sul golf e di poter vantare un enorme credito nei suoi confronti. Il trafficante di cocaina “Slim” Bouler ed il poco raccomandabile Eddie Dow sono stati più fortunati, avendo già ricevuto da tempo i saldi a tre zeri. Jordan nega, poi conferma, poi ridimensiona. È chiaro a tutti che ci sia del vero, soprattutto al commissioner NBA David Stern che difende il suo giocatore - ed il suo prodotto - a spada tratta.
Qualsiasi siano i motivi, se la paura di una figuraccia mondiale che affogherebbe nel fango la sua immagine o l’umano appagamento di un atleta troppo dominante nel suo sport o ancora il terremoto emotivo causato dalla violenta ed improvvisa perdita di una figura portante della sua vita, Jordan non è più un atleta professionista. Nubi cariche di pioggia si addensano sul basket americano: dopo la morte di Dražen Petrović e Reggie Lewis ed una controversia sul salary cap che sta creando scompiglio nella lega deve affrontare anche la perdita del suo giocatore simbolo.
Continua...
di Christian Tugnoli
Nella foto, Michael Jordan festeggia insieme a suo padre dopo una vittoria dei Chicago Bulls(newsone.com).
Attenzione, l’NBA non è quella di oggi con trenta squadre ed il talento estremamente diluito tra le franchigie: per arrivare alla serie finale i Bulls hanno dovuto superare ai playoff gli ostacoli Kevin Willis, Mookie Blaylock, Dom Wilkins, Stacey Augmon, Jon Koncak (Atlanta Hawks), Mark Price, Craig Ehlo, Brad Daugherty, Mike Sanders, Gerald Wilkins, Hot Rod Williams (Cleveland Cavaliers), Charles Oakley, Pat Ewing, John Starks, Doc Rivers, Anthony Mason (New York Knicks) per poi trovarsi di fronte ai Suns dell’amico-nemico Charles Barkley, di Dan Majerle e Danny Ainge, di Kevin Johnson e Mark West.
Jordan arriva a quella finale con nel taschino una lista infinita di riconoscimenti personali già ottenuti in carriera ed ha solamente ventinove anni; tra i cinque “titolari” di quella magica serata all’America West Arena solo il centro Bill Cartwright è più vecchio di lui, ma in panchina c’è già chi scalpita per raccoglierne l’eredità.
Prima di quei Bulls solo i Minneapolis Lakers erano riusciti in un three-peat, quarant’anni prima, ed i Celtics avevano centrato addirittura un eight-peat, marchiando a fuoco una decade e spiccioli di basket americano. Air è l’alfiere di una squadra non solo vincente, bensì dominante; l’NBA è sua, lo sarà per molti anni a venire e l’impressione è che il record dei Celtics sia seriamente minacciato dall’ascesa dei tori dell’Illinois.
Ma la storia sterza bruscamente. Due mesi dopo, il 13 agosto, viene identificato il cadavere di un uomo di colore trovato morto dieci giorni prima in una piccola palude di Bennettsville, vicino al confine tra North e South Carolina, col volto riverso sull’acqua stagnante. Gli assassini sono due ed uno di loro al momento dell’arresto sfoggia una maglietta di Jordan: la vittima è il padre, James Raymond Jordan. Michael è sconvolto, il legame con James era strettissimo: era con lui mentre festeggiava il suo primo anello NBA ed ancora prima era stato lui, grande appassionato di sport, a spronarlo a continuare nonostante fosse considerato inadeguato per la pallacanestro alla Emsley A. Laney High School.
L’inconfondibile linguaccia durante lo sforzo del gesto atletico, divenuta un suo tratto distintivo, aveva volontariamente deciso di adottarla per omaggiare lo stimato padre che quando si concentrava aveva quella curiosa abitudine. Due ragazzini, per rubare la macchina dove si era riposato James Jordan di ritorno da un funerale, sparandogli senza alcun motivo - l’intenzione era di immobilizzarlo con una corda - avevano strappato da Michael una parte importante di sé.
La reazione di Jordan arriva altri due mesi dopo: il 6 ottobre, a meno di un mese dalla partita d’esordio della nuova stagione dei Bulls, annuncia in una conferenza stampa il suo ritiro dall’attività agonistica. “The desire isn’t there”, la motivazione; ha già dimostrato tutto, ha già vinto tutto, la pancia è piena e le motivazioni latitano.
L’omicidio del padre ha dato lo slancio decisivo ad una decisione consapevole e maturata nel tempo. Già nell’estate del 1992 Jordan aveva meditato sulla possibilità di lasciare il basket, schiacciato dal peso della sua fama ormai Mondiale e dalla fatica di una stagione NBA conclusa con l’Olimpiade del Dream Team.
Non mancano naturalmente teorie più prosaiche riguardo la decisione-shock: la notte precedente ad una partita della serie di playoff del 1993 contro i Knicks Jordan era stato visto scommettere ad Atlantic City, mentre nel libro dello stesso anno "Michael & Me: Our Gambling Addiction... My Cry for Help!" l’uomo d’affari di San Diego Richard Esquinas scrive di aver vinto due anni prima più di un milione di dollari scommettendo con Jordan sul golf e di poter vantare un enorme credito nei suoi confronti. Il trafficante di cocaina “Slim” Bouler ed il poco raccomandabile Eddie Dow sono stati più fortunati, avendo già ricevuto da tempo i saldi a tre zeri. Jordan nega, poi conferma, poi ridimensiona. È chiaro a tutti che ci sia del vero, soprattutto al commissioner NBA David Stern che difende il suo giocatore - ed il suo prodotto - a spada tratta.
Qualsiasi siano i motivi, se la paura di una figuraccia mondiale che affogherebbe nel fango la sua immagine o l’umano appagamento di un atleta troppo dominante nel suo sport o ancora il terremoto emotivo causato dalla violenta ed improvvisa perdita di una figura portante della sua vita, Jordan non è più un atleta professionista. Nubi cariche di pioggia si addensano sul basket americano: dopo la morte di Dražen Petrović e Reggie Lewis ed una controversia sul salary cap che sta creando scompiglio nella lega deve affrontare anche la perdita del suo giocatore simbolo.
Continua...
di Christian Tugnoli
Nella foto, Michael Jordan festeggia insieme a suo padre dopo una vittoria dei Chicago Bulls(newsone.com).