Se a inizio stagione qualche interrogativo sull’effettiva competitività dei Tigers sarebbe stato del tutto legittimo, non solo in virtù delle partenze di Peralta, Infante e Fielder ma anche per via degli infortuni occorsi in preseason a Iglesias, Dirks e Rondon, il primo scorcio di stagione sembrava aver spazzato via ogni dubbio: un record di 27-12 dopo 39 partite, A.L. Central che sembrava già decisa, grandi peana e ponti d’oro per il ’nuovo corso’ di Brad Ausmus.

Invece, nel corso dei mesi successivi, le numerose ’voragini’ di un roster composto da molte stelle ma anche parecchi punti interrogativi sono venute impietosamente alla luce e, quasi cento partite dopo, i Tigers si trovano invischiati in piena bagarre per il titolo divisionale e lontani dalla certezza di un posto nella griglia dei playoffs.

Dopo quello sweep al Fenway che mancava da 31 anni, per tre mesi e mezzo i Tigers hanno vivacchiato costantemente sotto il filo del .500: in pratica, durante questo frame hanno tenuto il passo di squadre come Cubs e Astros. Eppure, per lungo tempo questo ’andamento lento’ era sembrato del tutto sufficiente per mantenere il controllo della divisione: ancora il 21 luglio Detroit (55-41) manteneva 6½ partite di vantaggio su Cleveland (50-49) e 7½ su Kansas City (48-50). Tutte quelle partite gettate al vento vuoi per l’inadeguatezza del bullpen, vuoi per i frequenti blackouts nel box di battuta oppure per amnesie difensive a dir poco agghiaccianti, sembravano non dovessero aver alcun peso, alla fine.

Improvvisamente, poi, i Royals hanno cominciato a volare, in barba all’infortunio di Hosmer. Gli Indians hanno accelerato il passo nonostante le cessioni di Masterson e Cabrera. I Tigers, che con l’aggiunta di Price avrebbero in teoria dovuto seppellire la questione della division una volta per tutte, hanno invece continuato la loro marcetta traballante, condita da una serie di prestazioni indegne come quella di ieri sera a Chicago, farcita da 4 errori e da quel nauseante atteggiamento da ’get out of town’, lo stesso che Leyland, all’inizio della sua tenuta nel 2006, stigmatizzò pubblicamente dopo una brutta sconfitta casalinga contro Cleveland.

Al di là dei molti infortuni, di un Verlander lontano anni luce dai suoi giorni migliori, di un Cabrera che per il secondo anno consecutivo chiuderà la stagione su una gamba sola (tutte scuse che dovremo prepararci a sentire qualora le cose dovessero prendere una brutta piega), resta indelebile il fatto che i Tigers abbiano perduto un’infinità di partite che avrebbero dovuto vincere e non hanno strangolato la loro division quando avrebbero potuto. Oggi, in condizioni tutt’altro che ottimali, si trovano invece nella situazione di non potersi più concedere molti passi falsi, a cominciare dalla serie di Cleveland, che partirà stasera con un gustoso pitching matchup tra David Price (12-10, 3.32 ERA) e Corey Kluber (13-8, 2.52 ERA) e dalla quale sarà vietato uscire senza aver vinto almeno due partite su quattro.

I Tigers sono ancora padroni del loro destino. Mancano ancora 26 partite alla fine, 16 delle quali casalinghe. Restano a disposizione ancora due serie, una in casa e una trasferta, per regolare i conti sia con Kansas City che con Cleveland – squadre al cui cospetto, pur con tutti i problemi sopra citati, i Tigers restano ancora qualche gradino sopra in termini di talento. Ma a Detroit devono stamparsi in testa – e qui saranno fondamentali ruolo e personalità di Ausmus – che il talento puro, da solo, non va da nessuna parte senza il massimo impegno, fisico e mentale, nel diamante. Quell’impegno che è totalmente mancato ieri e in tante altre occasioni, e che deciderà l’esito della stagione più dell’ERA di Verlander o degli HR di Cabrera.

di Massimiliano Barzotti


Nella foto, la stella Justin Verlander (standingsports.com).